Alla Sera

Questo è considerato come il più bel sonetto del Foscolo: "esprime lo smorzarsi di un tumulto grande ma umano nello sconfinato sopore dell'universo" (Momigliano). Nel silenzio della sera il Foscolo si lascia andare ai suoi pensieri, rappresentando tutto il percorso compiuto nei sonetti, dal travaglio per l'esilio e per la tomba illacrimata fino a concludersi con un momento di quiete, in cui si desidera la morte per appianare i tumulti del giorno. C'è quasi un'accettazione virile dell'esistenza, privata dal conforto della fede religiosa, con tutti i suoi dolori e i suoi travagli, che porta ad un ritrovare la pace, facendo propria quella tranquillità che viene emanata dalla sera. Si tratta comunque di una pace momentanea, di un intervallo tra le afflizioni, in cui riesce a far dormire "quello spirto guerrier che entro mi rugge". La disperazione trova dunque conforto nella contemplazione della natura, attraverso la quale il poeta riesce a dominare l’angoscia della propria anima. 
Il sonetto fu pubblicato per la prima volta nel 1803 ed è uno degli approdi più alti della poesia italiana: suoni, immagini, aggettivi, pause, creano un’intensa atmosfera lirica dominata da molte ombre e da scarse luci.


 



 

A Zacinto

Caratteristica ricorrente nella biografia di Foscolo è il desiderio di un ritorno alla città natale nei suoi momenti forse più difficili: il ricordo di Zacinto infatti, naturalmente legato a quello della sua infanzia, è immerso in un ricco contesto di riferimenti alla cultura classica, sebbene l'isola fosse all'epoca appartenente alla Repubblica Veneta. Proprio in questo sonetto si ha l'esempio più eclatante di questa tendenza, collocando a Zacinto, più volte cantata anche da Omero, la nascita della dea Venere, e recuperando la figura mitica di Ulisse, quale esule per eccellenza, nel paragone con la condizione vissuta dall'autore stesso. E' appunto tipico di Foscolo assumere i vari personaggi della mitologia e dell'epica ellenica a paradigmi delle varie virtù, situazioni o difetti umani. 
Ma il Foscolo è eroe del presente, caratterizzato da un destino di sofferenze e di esclusione: egli sancisce in maniera definitiva il suo isolamento con il sintagma "illacrimata sepoltura"; quel participio, sapientemente collocato di fronte ad un termine di forte intensità semantica, segna lo scacco definitivo di qualsiasi possibilità di comunicare: ecco allora il timore che neppure le lacrime dei posteri o dei suoi cari saranno concesse al poeta.
Il sonetto foscoliano può dunque essere letto come la registrazione di una esperienza di esclusione e di doloroso bisogno di dialogo, il cui interlocutore è costituito dall’isola che ha dato i natali al poeta, vista quasi come una madre dal cui grembo ha avuto origine la vita.


 



 

In morte del fratello Giovanni

Il tema dell’esclusione dell'esule compare anche in questo sonetto scritto in occasione della morte del fratello GianDionisio: egli infatti trova un interlocutore, qualcuno a cui confidare i suoi pensieri, nel fratello defunto che diventa il "tu" di un dialogo profondo e drammatico. La necessità di comunicare è più forte dei limiti terreni, e Foscolo cerca di vincere il silenzio della morte, che pur aborrita e combattuta, è alla fine desiderata poiché vista come riposo e termine nel grembo della sua madre-terra.
Per Foscolo la vita è un esilio, è un migrare "di gente in gente" è una realtà da cui vorrebbe fuggire per mettere fine ad un interminabile tormento, per trovare la pace interiore nonché la serenità di una situazione di stasi. Ecco quindi nascere un dualismo tra dinamicità e quiete, reso dall’alternanza e mescolanza di verbi che caratterizza l’intero sonetto: è significativo il contrasto tra il "fuggendo" del v. 1 e il "seduto" del v. 2.E’ vivo quindi, negli ultimi sei versi, il sentimento di triste rassegnazione, in cui il poeta si eleva ad unico protagonista, lasciando cadere quell’alternanza tra prima e seconda persona caratteristica dei versi precedenti.
E’ interessante porre questo sonetto a confronto con il carme CI di Catullo, dal quale Foscolo sicuramente ha preso spunto. Sono chiare le riprese testuali, soprattutto nella prima parte dei due componimenti, dove l’incipit appare addirittura parallelo. Per quanto riguarda la possibilità di instaurare una comunicazione, Catullo trova una via d’uscita alla barriera di tristezza e dolore nel rito, come forma di possesso, di certezza, che è garantita dall’antica tradizione (more parentum, v. 7), adempiendo alle prescrizioni della quale si può giungere ad una condizione di pace e tranquillità.
Foscolo, invece, dall’affanno e dal tormento caratteristico dei nostri giorni, trae una visione pessimistica: non trova sbocco al suo senso di disagio interiore e il pianto, consolatorio in Catullo, diventa, nel sonetto foscoliano, semplice e drammatica registrazione di un’assenza, della privazione di un interlocutore, che non c’è.


 

Foscolo
Catullo
In morte del fratello Giovanni
Carme CI
Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
sulla tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de’ tuoi gentili anni caduto.
La madre or sol, suo dì tardo traendo,
parla di me col tuo cenere muto:
ma io deluse a voi le palme tendo;
e se da lunge i miei tetti saluto,
sento gli avversi Numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta,
e prego anch’io nel tuo porto quiete.
Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, l’ossa mie rendete
allora al petto della madre mesta.
Multas per gentes et multa per aequora vectus
advenio has miseras, frater, ad inferias,
ut te postremo donarem munere mortis
et mutam nequiquam alloquerer cinerem
quandoquidem fortuna mihi tete obstulit ipsum
heu miser indigne frater adempte mihi.
Nunc tamen interea haec, prisco quae more parentum

tradita sunt tristi munere ad inferias
accipe fraterno multum manantia fletu
atpue in perpetuum, frater, ave atque vale.