GIOVE E TETI, 1811



Giove e Teti, Ingres, neoclassicismo



In una sua lettera Ingres ebbe a descrivere il suo progetto per questo dipinto come un'immagine pagana di tale bellezza che "anche i cani arrabbiati, che vogliono azzannarmi, dovrebbero esserne commossi", e ancora "un quadro divino che dovrebbe far sentire l'ambrosia a una lega di distanza". Il soggetto vedeva Teti implorante presso Zeus per suo figlio Achille, con una sua mano a cingergli le ginocchia e l'altra a sfiorargli il mento; il seno posato sulla coscia della divinità, mentre Hera osserva la scena. Flaxman pure aveva realizzato una versione dell'episodio omerico, ma con un approccio molto meno fedele al testo omerico, e una gestualità più timida: l'eroticità espressa da Ingres si distanzia dal canone neoclassico fino ad allora visto, e si staglia su una tela di 3 metri per 2,5.
L'accoglienza al quadro nel 1811, a Parigi, fu scarsa, sebbene una personalità come Baudelaire ebbe a lodare il lavoro cromatico di Ingres, accusando i contemporanei di non accorgersi di tali meriti, mentre altri ne criticavano addirittura la fiacchezza di colori, la mancanza di massa, la piattezza del cielo. Il governo francese, proprietario del quadro, lo restituì ad Ingres in quanto non interessato, per ricomprarlo 23 anni dopo posizionandolo al museo Aix-en-Provence senza mostrarlo al pubblico.
Di certo il cielo è realizzato come un qualcosa di sovrannaturale, metafisico, un'etere senza nulla di umano, che stride al contatto con la carnalità candida di Teti, e l'imponenza di Giove che sembra un'entità antropomorfa più che una divinità, ed esprime la repressione del suo desiderio per la donna in quanto Omero narra che Giove sapesse che la loro unione avrebbe generato un figlio più potente del padre.


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